Né rifugiato, né migrante economico. Ma Kader ha lo stesso un messaggio per Salvini

Né rifugiato, né migrante economico. Ma Kader ha lo stesso un messaggio per Salvini

A guidare il corteo sotto l’abitazione in cui il sindaco di Riace Mimmo Lucano era agli arresti domiciliari, lo scorso 6 ottobre, c’era un ragazzo con un megafono in mano e la bandiera arrotolata sulla fronte. Intonava “Bella ciao”. Lo stesso che l’8 e il 9 dicembre era a Marrakech a rappresentare l’Italia alla due giorni dello Youth Forum organizzato dall’Unicef alla vigilia della Conferenza Intergovernativa sul Global Compact. Lui si chiama Kader Diabate, ha 19 anni e una storia che lo ha portato dalla Costa d’Avorio a Corato, in Puglia, passando attraverso il carcere in Libia e il viaggio sul gommone nel Mediterraneo. “Sono un migrante sognatore”, racconta all’Agi.

In che senso sognatore?

“Nel senso che sono partito dal mio Paese per la voglia di libertà e di coltivare il sogno di ribellarmi contro ogni forma di ingiustizia. In Costa d’Avorio non c’è la guerra, non me ne sono andato per quello. Non sono nemmeno un migrante economico, anzi: la mia famiglia ha una cultura molto alta. Mio zio è un insegnante di filosofia e a 13 anni leggevo Karl Marx e Victor Hugo. Ero un attivista già nel mio Paese”.

Che cosa faceva in Costa d’Avorio?

“Ho cominciato a ribellarmi contro alcune tradizioni come la mutilazione genitale femminile e a favore del diritto all’istruzione delle ragazze. Lì ho conosciuto la prigione per la prima volta per aver organizzato un raduno senza autorizzazione. In me c’è un istinto rivoluzionario, mi ispiro a Rosa Parks (la donna che nel 1955, a Montgomery negli Stati Uniti, si rifiutò di lasciare il proprio posto su un autobus a un bianco, un gesto che le costò il carcere, ndr)”.

Né rifugiato, né migrante economico. Ma Kader ha lo stesso un messaggio per Salvini

 Kader Diabate

Quando ha lasciato la Costa d’Avorio?

“Era giugno del 2016, avevo 17 anni. Volevo raggiungere il Burkina Faso e lì fermarmi. Il fratello di un conoscente che era con me, però, ci ha chiesto di andare in Libia: a quel tempo in una parte del Paese si viveva bene e c’era lavoro. Mentre cercavamo di raggiungerlo siamo stati intercettati e arrestati: ho trascorso una settimana in carcere a Sabha”.

E poi?

“Il rapitore ci torturava e ci picchiava chiedendoci soldi. Quando si è reso conto che parlo una decina di dialetti africani ha deciso di usarmi come interprete: per lui ero prezioso, mi aveva dato una stanza e mi pagava. Invece di fare il suo gioco, però, cercavo di far scappare gli altri migranti. Quando lo ha scoperto mi ha ferito: sono riuscito a fuggire, avevo il deserto alle spalle e il mare di fronte. L’unica possibilità era salire su un gommone. Ho pensato che fosse meglio farsi mangiare dai pesci che essere assassinato da un essere umano”.

A ottobre 2016 è arrivato in Italia.

“Quando ero in Costa d’Avorio le uniche cose che conoscevo dell’Italia erano i nomi delle squadre di calcio. In vita mia non avevo mai pensato di venire qua in questo modo, mai mai e poi mai: come ospite per la mia carriera diplomatica sì, come migrante assolutamente no. Il viaggio è l’esperienza più dura che possa capitare a un essere umano: quando vieni scambiato per soldi perdi la dignità. Il 22 ottobre 2016 sono sbarcato a Reggio Calabria e destinato allo Sprar di Camini, a due chilometri da Riace. Dieci anni fa era un paesino quasi abbandonato, poi i progetti di accoglienza dei migranti hanno fatto rinascere la comunità. Proprio come nel paese di Mimmo Lucano”.

A proposito di Lucano, lo ha ancora sentito?

“L’ultima volta che gli ho parlato era novembre. Ha un cuore immenso, non ho mai conosciuto qualcuno che con una storia di disperazione alle spalle non abbia trovato la disponibilità di Lucano. Dopo aver investito 20 anni per aiutare gli altri ora è accusato di un reato che non esiste. Se a Riace arrivavano soldi per 400 persone lui ne faceva vivere 800”.

Secondo un recente rapporto del Censis “gli italiani sono incattiviti e rancorosi”.

“Tornando da Marrakech, sul pullman dall’aeroporto di Reggio Calabria alla stazione ferroviaria è salito un controllore: ero seduto negli ultimi posti ma lui, urlando “Ehi tu”, è venuto a controllare direttamente il mio biglietto. Soltanto il mio e quello di nessun altro passeggero: era convinto che non lo avessi. L’ho esibito e gli ho detto che gente come lui non deve vivere in Italia perché sono quelli così che offrono un’immagine negativa dell’intero Paese. Da una parte ha ragione il Censis, dall’altra penso che sia il momento di condividere le esperienze perché l’italiano in fondo è buono. La mia storia qui testimonia che non sono tutti cattivi”.

Né rifugiato, né migrante economico. Ma Kader ha lo stesso un messaggio per Salvini

 Kader Diabate

Ce la racconti.

“Salvini ha convinto la gente che tutti i problemi dell’Italia si riassumano nella questione immigrazione. Ma in quanti sanno che dei famosi 35 euro al giorno ai migranti a me ne arrivano solo 2,50 mentre il resto serve a pagare le spese e gli stipendi dei lavoratori italiani che si occupano di noi? Però non posso pensare che siano tutti str…. A Camini, come a Riace, hanno messo al centro l’essere umano e mi hanno accolto: mi hanno insegnato la lingua e la cultura così possiamo essere una risorsa. Facevo anche la guida turistica in paese… Ascoltavano le mie paure e incertezze e mi hanno aiutato a svilupparmi. Le dico la verità, mi sento caminese. E lì ho conosciuto una insegnante di inglese, Daniela Maggiulli, che mi ha quasi adottato dopo la fine dell’esperienza nello Sprar. È diventata come una mamma”.

Oggi è tornato a fare l’attivista?

“Sì, ora abito a Corato in Puglia. Giro per le scuole a tenere conferenze, mi batto per i diritti umani e seguo alcuni progetti. Per esempio stiamo per aprire una biblioteca nella mia città in Costa d’Avorio grazie a un partenariato con i Presìdi del Libro della Puglia. Posso fare l’attivista senza preoccuparmi di come campare perché so che c’è una persona che mi da da mangiare: per questo le dico che gli italiani in fondo sono buoni”.

Che cosa avete fatto a Marrakech?

“L’Unicef mi ha coinvolto nel progetto U-report in the move: conduciamo delle ricerche sulle condizioni dei migranti per capire con che cosa vivono e quali diritti hanno. Abbiamo lanciato una piattaforma in cui ci scambiamo informazioni e i risultati li abbiamo portati a Marrakech: cerchiamo di raccontare quanto la gente si senta discriminata e come sia difficile accedere ai servizi sociali e sanitari. In Marocco abbiamo discusso delle potenzialità di crescita portate dai migranti e lavorato su alcuni progetti imprenditoriali”.

A Marrakech è stato adottato il Global Compact, ma l’Italia non ha partecipato.

Il documento parla di immigrazione sicura, dignitosa e protetta, tre condizioni che si scontrano con il Decreto Sicurezza. I migranti non possono prendere parte al Servizio Civile nazionale, chi è arrivato dopo il 5 ottobre rimane con la Stp (la tessera Straniero Temporaneamente Presente, ndr), cioè con una tessera sanitaria valida soltanto nella regione dove è stata emessa. Se un ragazzo si sente male in Lombardia ma ha la tessera calabrese non può essere curato. Ha senso?”

Che cosa vorrebbe dire a Salvini?

“Che non è troppo tardi per fare un passo indietro, studiare la storia e mettere al centro l’essere umano. Si ricordi che, se ci feriamo, il sangue esce rosso per tutti: non verde per lui perché è bianco e blu per me per me che sono nero”. 

Se avete correzioni, suggerimenti o commenti scrivete a dir@agi.it

Post simili: