Più che a proteggere i propri dati personali gli italiani pensano a come guadagnarci

Più che a proteggere i propri dati personali gli italiani pensano a come guadagnarci

 Unc

 Alessandro Lacovara, Managing Director di Phd

Sei mesi dopo l’applicazione in tutti i Paesi europei del nuovo regolamento europeo GDPR (General Data Protection Regulation), PHD Italia – agenzia media e di marketing di Omnicom Media Group – con una nuova rilevazione della ricerca “L’insostenibile leggerezza del dato” torna a indagare l’atteggiamento degli italiani nei confronti della protezione dei dati personali e arricchisce di nuove evidenze l’attività dell’Osservatorio interno su privacy e media. Il relazione è stata illustrata al Teatro Argentina di Roma da Alessandro Lacovara, Managing Director di Phd, nel corso del dodicesimo Premio Dona organizzato dall’Unione Nazionale Consumatori (Unc).
 

Premio Dona 2018. Massimiliano Dona con il garante della Privacy, Antonello Soro (Foto UNC)

“Questa nuova wave – ha detto Lacovara – conferma il ritratto contraddittorio degli italiani in materia di privacy online: preoccupati ma non così attenti a proteggerla, consapevoli del valore commerciale dei dati personali, ma poco informati sul loro effettivo utilizzo. Desiderosi, comunque, di avere un maggiore controllo sulle informazioni fornite, perché poco convinti della trasparenza delle aziende”.

Le principali conclusioni dell’indagine illustrata dall’MD di Phd Italia
 

Gli italiani non sanno cosa sia il Gdpr​

La ricerca evidenzia una conoscenza ancora limitata della nuova regolamentazione europea sul trattamento dei dati e una scarsa consapevolezza della sua importanza: quasi la metà degli italiani, infatti, il 44% degli intervistati, non ha mai sentito parlare del GDPR e un altro 27% l’ha sentito nominare ma non sa di cosa si tratti. Il 55% del campione lo identifica correttamente nel “nuovo regolamento europeo sulla protezione dei dati personali”, ma nel restante 45% regna la confusione tra chi lo indica come la “nuova authority per la privacy” (12%), il “nuovo sistema operativo che protegge la privacy” (9%), “una strategia delle aziende per accedere ai dati personali per scopi di marketing” (6%).

Quanto valgono i dati

Più di sette italiani su dieci (73%, in aumento rispetto al 70% della precedente rilevazione) si dichiarano consapevoli del valore commerciale dei propri dati personali, il 50% (sei mesi fa era il 47%) concorda nella definizione di “moneta di scambio per contenuti gratuiti sul web”. Ma alla domanda “In che modo vorresti essere ricompensato per la condivisione delle tue abitudini?” la maggioranza degli intervistati (il 62% del campione) sceglie come risposta “con del denaro” e quando si tratta di dare un “prezzo” a queste informazioni a vincere nella quotazione è la sfera intima: se uno su cinque accetterebbe, infatti, di essere monitorato negli spostamenti per 50 euro al mese, per le abitudini sessuali ne chiederebbe il doppio; più di cento euro, per uno su tre, per le informazioni medico sanitarie.

Accanto al concetto di valore del dato si fa strada anche quello di potere del dato: il 59% degli italiani si dice infatti convinto del fatto che un utilizzo improprio dei dati personali possa manipolare la democrazia.

Trasparenza: poca fiducia nelle aziende

Che cosa si aspettano gli italiani? Uno su due (54%) ritiene le istituzioni responsabili della protezione dei dati personali e della privacy, per il 66% il governo dovrebbe intervenire di più nella regolamentazione e il 68% vorrebbe avere un maggiore controllo sulle informazioni che fornisce alle aziende, anche perché solo il 15% del campione si dice convinto della trasparenza delle aziende rispetto alle politiche di gestione dei dati personali dei clienti. Quasi la metà degli italiani, inoltre, (il 45% del campione, in crescita di oltre 20 punti rispetto al 31% di sei mesi fa) prevedono che le loro scelte di acquisto potrebbero essere influenzate dal livello di trasparenza sul trattamento dei dati offerto dall’azienda del prodotto o servizio che intendono acquistare.

Alessandro Lacovara, Md di Phd Italia (Foto: UNC)
 

La pigrizia batte la preoccupazione?

Preoccupazione e consapevolezza sul tema dei dati personali non si traducono nell’adozione di comportamenti utili a contenere i rischi. Circa sei italiani su dieci (59% del campione contro il 62% di sei mesi fa) si dicono preoccupati per la privacy online e sette su dieci (71% contro il 67% di sei mesi fa) dichiarano che la preoccupazione, rispetto al passato, è sensibilmente aumentata. Solo il 52%, però, si definisce “molto attento” alla protezione della propria privacy online, percentuale che sale invece di molti punti, al 68%, quando si tratta di proteggere la privacy dei minori.

Il 42% del campione confessa che condividere informazioni personali in rete lo spaventa, ma una percentuale analoga (40%), quando valuta il consenso al trattamento dei dati personali, dichiara di cliccare su “consenti” leggendo velocemente o non leggendo affatto. Solo uno su cinque (22%) si descrive come “sempre consapevole” per quanto riguarda il trattamento dei propri dati. A proposito della nuova regolamentazione europea, inoltre, la maggioranza del campione dichiara di aver letto “solo alcune” (42%) o addirittura “solo le prime” (28%) delle email che facevano riferimento al GDPR ricevute in questi sei mesi. E a prevalere, dopo la ricezione delle email, è stata la conferma del consenso al trattamento dei dati (35%) o la passività (“non ho fatto niente”, dichiara un intervistato su quattro).

La gestione e lo scambio dei dati personali in rete preoccupano, in particolare, per il furto d’identità (77%), frodi informatiche e phishing (76%) e per l’utilizzo improprio dell’immagine dei minori (74%). Seguono, nella rosa delle preoccupazioni, la scarsa trasparenza sull’utilizzo dei dati personali (72%) e la cessione dei dati a terzi (69%). Eppure, se si vanno ad indagare le misure adottate negli ultimi sei mesi per proteggere la propria privacy, si scopre che anche uno fra gli strumenti più noti, la navigazione in incognito, supera di poco il 25%.

“Le persone ci vogliono guadagnare”

Commenta Alessandro Lacovara: “Il 73% degli intervistati dice di sapere che i propri dati personali hanno un valore commerciale e il 62% sa bene cosa vorrebbe in cambio una volta ceduti: denaro contante. 90 euro al mese è il prezzo medio che gli italiani chiederebbero a un’azienda per consentirle di ‘spiare’ le proprie abitudini d’acquisto e le ‘tariffe’ salgono oltre i 100 se a essere monitorate sono informazioni di tipo medico o che riguardano la propria intimità. Troppo poco? Lasciamo tracce online ogni giorno, quasi senza accorgercene, e la tecnologia le utilizza apparentemente senza sforzo. Ma questo lavoro silenzioso sta cambiando tutto e affrontare marketing e comunicazione senza capire la centralità del dato è – oggi e domani – insostenibile: i brand dovranno sempre più concentrarsi su come ottenere la fiducia dei consumatori in merito alla gestione dei dati personali e da questo dipenderà il fallimento o il successo delle aziende del prossimo futuro”.

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