Cinque anni fa moriva l’ultimo boia delle Fosse Ardeatine

Cinque anni fa moriva l'ultimo boia delle Fosse Ardeatine

Da cinque anni Erich Priebke giace in una tomba senza nome, in un cimitero senza nome su un’isola senza nome. Non ci può essere rappresentazione più concreta del desiderio che cali il silenzio sulla sua vita, e sull’orrore che ha commesso. Perché Erich Priebke fu l’ultimo, e come tutti gli ultimi porta con sé la condanna a non lasciare nulla. Nel suo caso non ci può essere scelta più saggia, perché fu l’ultimo nazista ad essere processato in Italia, per una delle peggiori stragi commesse durante l’occupazione del 1943-45. Uccise (volontariamente, convintamente, senza coercizioni) nel Massacro delle Fosse Ardeatine. Un massacro da lui preparato ed eseguito la mattina del 24 marzo 1943: 355 morti, ebrei carabinieri partigiani gente rastrellata a via Rasella o strappata dall’infermeria di Regina Coeli. Basta superare la soglia delle Fosse per sentire le loro urla rimbombare tra le volte di tufo.

Nessun pentimento

Mai una parola di pentimento per il proprio passato, mai un’espressione di comprensione per le vittime o le loro famiglie: per cento anni, quanti ne ha vissuti, Erich Priebke è rimasto fedele a se stesso ed a quello che ha fatto. Uccidere alle Fosse Ardeatine è l’atto di eclatante di una carriera da aguzzino, iniziata con la campagna di soppressione degli oppositori politici del nazismo in Germania e proseguita in Italia fino al giorno stesso dell’arrivo degli americani a Roma.

Il ragazzo di Berlino

La storia dell’uomo che spuntava la lista dei condannati inizia in un sobborgo di Berlino, negli anni immediatamente successivi alla disfatta nella Prima Guerra Mondiale. Famiglia modesta, studi in un istituto alberghiero, un primo soggiorno a Londra ed uno a Sanremo, come cameriere. Sembra che tutto inizi di lì, dall’amicizia con un maestro di sci che lo introduce al verbo del nazionalsocialismo.

Lui, Priebke, sostiene invece di essere sempre stato un uomo come tanti, un semplice esecutore di ordini, uno che il poliziotto lo faceva perché doveva sbarcare il lunario, ed in fondo si trattava di un mestiere onorevole. La verità è che lui entra nella polizia di Berlino, ma subito dopo aderisce alla Gestapo: la polizia segreta del regime.

Nell’ufficio rastrellamenti della Gestapo

Di più: come rivelò all’epoca del processo l’AGI, andando a cercare nei National Archives di Washington, Erich Priebke venne inquadrato nel Gestapa. Il Gestapa (“Geheim Staatspolizei Amt”) era l’ufficio preposto all’individuazione ed alla schedatura degli oppositori del regime nazista. Si trattava soprattutto di comunisti, cattolici e socialdemocratici.

A partire dal 1937 le SS, cui Priebke aveva nel frattempo aderito, iniziarono a rastrellarli. Finirono, a decine di migliaia, nel primo campo di sterminio del regime, a Sachsenhausen.

L’interprete del Fuehrer

Sempre nel 1937 il Giovane Erich dette una svolta alla propria vita: sposò la ragazza di cui era innamorato e se ne andò a Roma, a fare da interprete ad Adolf Hitler in persona in occasione della visita ufficiale da Mussolini. A Roma sarebbe tornato un anno dopo, questa volta in pianta stabile, alle dipendenze di Villa Wolkonski, l’ambasciata tedesca presso il Regno d’Italia. Qui conobbe l’uomo al quale il destino lo avrebbe legato: Herbert Kappler, giovane ufficiale delle SS anche lui, anche se di un grado superiore.

Gli orrori di Via Tasso

Cosa facessero in realtà i due a Roma non si sa bene. Si sa che ad un certo punto un autorevole esponente della nobiltà nera romana gli affittò per pochi soldi una palazzina, uso ufficio, nei pressi di San Giovanni. A Via Tasso, dopo l’Otto Settembre, i capi della Resistenza romana venivano portati, torturati, qualche volta costretti a confessare. Spesso morivano. In fondo lo stesso mestiere, per Priebke, dei tempi del Gestapa.

La bomba di via Rasella

Lui e Kappler stavano percorrendo a piedi la breve strada che unisce Villa Wolkonski a Via Tasso, il 23 marzo 1944, quando seppero dell’attentato a Via Rasella. Hitler ordinò prima la distruzione di Testaccio e San Lorenzo, poi si optò per la rappresaglia del 10 a 1: dieci fucilati per ogni tedesco ucciso. A fare la lista, nel corso di una notte, fu Kappler. Priebke batteva a macchina.

Si scelse prima tra i condannati a morte. Non bastavano: si decise di svuotare tutto il carcere, lasciando quelli le cui confessioni eventuali potevano servire al lavoro di intelligence politica. Ma a morire dovevano essere in 330, ed anche così la lista non era completa.

C’erano degli ebrei appena rastrellati. Sul camion, anche loro. Ma ancora restavano dei posti vuoti. Kappler e Priebke andarono dal prefetto repubblichino di Roma, Caruso, che consegnò una serie di criminali comuni, o solo gente in normale stato di fermo.

Alla fine sui camion finirono in 335, contro i 330 inizialmente previsti. L’organizzazione di Via Tasso aveva funzionato anche troppo efficacemente.

Nelle gallerie scavate nel tufo

Nemmeno 24 ore dopo l’attentato di Via Rasella quattro camion partirono da Via Tasso e Regina Coeli, presero l’Appia Antica e girarono a destra, sull’Ardeatina. Qui c’erano delle vecchie cave di tufo, utilizzate l’ultima volta alla fine dell’Ottocento. I prigionieri venivano fatti scendere, legati gli uni agli altri per le mani, a gruppi di cinque.

Priebke spuntava i loro nomi dalla lista. Loro entravano nella grotta, si avvicinavano cinque SS, puntavano il fucile alla nuca e sparavano. Agli ufficiali toccò il primo turno di prigionieri: dovevano spronare la truppa. Una volta eliminato un gruppo di condannati, il successivo entrava, era costretto a salire sui corpi di quanti erano già stati uccisi, poi le SS appoggiavano la canna del fucile alla nuca e sparavano.

Cinque anni fa moriva l'ultimo boia delle Fosse Ardeatine

Wikipedia 

Fosse ardeatine 

Gli ultimi entrarono che quasi non c’era più posto: la catasta dei morti arrivava fino al soffitto. Furono costretti a salire fino alla volta.

Uccisi anche loro, i nazisti se ne andarono facendo saltare l’ingresso della cava. Non mancarono di buttarci davanti un mucchio di immondizia, per coprire l’odore.

“Ho solo ubbidito agli ordini”

Al processo, cinquant’anni dopo i fatti, Priebke si difenderà dicendo di essersi limitato a spuntare i nomi dalla lista, e di aver obbedito agli ordini. Ma già Kappler, che anni prima era stato arrestato, condannato, ricoverato al Celio ed era anche evaso, aveva ammesso il contrario. Anzi, tutti gli ufficiali avevano ucciso almeno due volte.

Il boia in fuga

La mattina in cui gli americani entrano a Roma dall’Appia e dalla Casilina, Priebke e Kappler fuggono dalla Cassia, verso nord. Poi si dividono.

Dopo la guerra Priebke sparì di circolazione. A Bolzano si fece battezzare da cattolico, poi con un passaporto ottenuto probabilmente grazie alla complicità di Monsignor Hudal (il parroco della Chiesa di Santa Maria della Pace a Roma) si imbarcò a Genova su una nave diretta a Buenos Aires.

Ritorno tra i tavoli

Qui il cerchio sembra chiudersi, perche’ Priebke torna al mestiere di gioventù. Un giornalista italiano lo incrocia per caso, nel 1954, in un bistrò della capitale argentina. Serve ai tavoli.

Pochi anni dopo si trasferisce con tutta la famiglia a San Carlos de Bariloche, in mezzo alle Ande argentine che proprio in quegli anni ispirano a Walt Disney la meravigliosa foresta di Bambi. Inizia una nuova vita, trova la prosperità, possiede una clinica privata.

Cinque anni fa moriva l'ultimo boia delle Fosse Ardeatine

Sergio Mattarella rende omaggio alle Fosse Ardeatine (gennaio 2015)

Gli americani lo raggiungono

La mattina del 12 maggio 1994 una troupe americana lo ferma per la strada. “E’ lei Erich Priebke?”, chiede Sam Donaldson della Abc. “Sì”, risponde lui: è’ il momento dei conti con la storia.

Il doppio processo in Italia si conclude con la condanna ad una lunga pena detentiva, da scontare agli arresti domiciliari. Lui viene ospitato sulle prime in un convento, poi il suo procuratore lo porta a casa sua, in un piccolo appartamento di un quartiere romano.

È la metà di un dicembre di una ventina d’anni fa. I vicini di casa lo accolgono con uno striscione sulla facciata del palazzo: “Buon Natale, assassino”.

In fondo non merita altro nome.

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