Il grosso litigio tra Trump e la calciatrice più forte degli USA

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MIRKO KAPPES / FOTO2PRESS / DPA PICTURE-ALLIANCE

Megan Rapinoe

Donald Trump reagisce sempre di scatto, da super macho che non deve chiedere mai il permesso. E, ancora una volta, ha incrociato il personaggio sbagliato, Megan Rapinoe, star della nazionale di calcio a stelle e strisce favorita per l’oro ai Mondiali (dopo quelli del 2015), gay dichiarata, dal 2015 nel “Gay and Lesbian Sports Hall of Fame”, paladina dei diritti di tutte le minoranze, seguace del movimento di Colin Kaepernick, il giocatore di football che per primo, tre anni fa, s’è inginocchiato e non ha cantato l’inno americano che viene intonato al via di tutte le gare, per protestare contro le ingiustizie e le oppressioni subite dalla minoranza nera negli Stati Uniti.

Già alla vigilia dei Mondiali, Megan aveva lanciato il sasso nello stagno: “Non so se canterò mai più l’inno nazionale, né mi metterò la mano sul cuore”. E durante i Mondiali ha tenuto fede alla promessa, rimanendo con gli occhi chiusi, mane eretta accanto alle compagne – senza inginocchiarsi, come ha imposto la Federcalcio Usa -, ma senza cantare l’inno come il resto della squadra. Anche se magari lo fa nel profondo del suo io. Perché i suoi dirigenti, adeguandosi alle altre federazioni, sotto le pressioni e le minacce economiche della Casa Bianca, stati duri, intransigenti, a dispetto della protesta di Megan.

“Usando come difesa il lenzuolo del patriottismo contro la protesta è una codardia da parte della NFL. E la decisione della Federcalcio Usa di imporre una regola – senza parlare con me – è la stessa cosa. Come questo non accettare il dibattito e cercare di fermarmi senza, invece, quantomeno, parlarne, e cercare una soluzione che accontenti tutti“.

Megan Rapinoe da Redding, California, che il 5 luglio compie 34 anni ha giocato in sette squadre diverse, emigrando anche a Sydney, in Australia, e a Lione, in Francia. Veterana dalla nazionale, ha esordito nel 2003, è una donna tosta, che posta per i suoi 500 mila followers di Twitter: “Da atleta, la mia missione è lasciare questo gioco in una condizione migliore per la prossima generazione femminile”. E guadagna 100 mila retweet per la foto coi capelli color fucsia.

Una leader del centrocampo, della squadra, del calcio, dello sport, della vita. Una che, per tener ancor più unito il gruppo, pretende di non essere unica capitana ma di dividere il ruolo con le compagne Carli Lloyd e Alex Morgan. Una che, da sempre è senza peli sulla lingua, figurarsi su questa storia dell’inno nazionale imposto: “Sento che è una sorta di sfida in sé e per sé per essere solo quello che sono e indossare la maglia, e rappresentarla. Sono qui perché sono così talentosa, quindi, non sta a qualcun altro dirmi se posso esserci o no”.

Poi l’affondo ancora contro il presidente, reo di non rispettare le diversità: “Che Dio ci aiuti se tutti noi gli assomigliassimo. Sarebbe spaventoso. Davvero spaventoso. E inquietante”. E se la squadra dovesse vincere il Mondiale, e quindi se fosse invitata alla Casa Bianca com’è consuetudine, Rapinoe ha le idee chiare: “Non ci andrò a quella fott… (omissis) Casa Bianca, anche se dovessimo vincere e ce lo chiedessero. Cosa di cui dubito”.

Ora, i modi sono discutibili. Ma Trump ha frainteso, o ha voluto fraintendere, la polemica con il sentimento antinazionalistico, e ha bacchettato duramente la stella del calcio donne Usa: “Non avevo ancora invitato la squadra, ma lo faccio adesso, sia che vinca sia che perda. Megan dovrebbe portare rispetto alla Casa Bianca, o alla nostra bandiera, soprattutto per tutto quello che abbiamo fatto per lei e per la squadra. Dovrebbe pensare a finire il suo lavoro, perché non abbiamo ancora vinto”.

Il problema è che Megan è talmente nazionalista che ai Mondiali 2011 contro la Colombia, dopo il gol del decisivo 2-0, ha preso un microfono della tv a bordo campo e ha cantato “Born in the Usa” di Bruce Springsteen. È stata una delle protagonista, in quell’edizione, nei quarti contro il Brasile con l’assist al minuto 122, favorendo lo storico gol di Abbey Wambach, il più tardivo della storia della Coppa. E ripetendosi come suggeritrice-chiave contro la Francia e poi contro il Giappone, e contribuendo  al secondo posto, dopo i rigori.

È stata tra gli artefici dell’oro olimpico a Londra 2012, realizzando direttamente da calcio d’angolo e venendo inserita nella squadra ideale del torneo, con tre gol e quattro assist finali. Ed è stata titolare ai trionfali Mondiali 2015: “Ho il massimo rispetto per la bandiera e la promessa che rappresenta. Quando mi inginocchio all’inno, quando non lo canto, sto abbracciando la bandiera con tutto il mio corpo e fisso dritto nel cuore del simbolo supremo della libertà del nostro paese. Perché credo che sia mia responsabilità, proprio come è tuo, di voi tutti, assicurare che la libertà sia garantita a tutti”.

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