Djokovic, un po’ superuomo, un po’ Messia

AGI – La domanda più seducente da porsi ora è: quando verrà eguagliato o superato un record del genere? Che mondo avrà davanti agli occhi e su quale tipo di pianeta poggerà i piedi colui che avrà la possibilità di vedere un tennista che conquista più di 23 titoli dello Slam?

Rispondere è uno stimolo molto interessante anche per chi è dotato della fantasia più fervida. L’impresa di cui Djokovic si è reso protagonista vincendo al Roland Garros in tre set contro Casper Ruud quello che è stato anche il suo terzo titolo sulla terra parigina e che gli consentirà di tornare a essere il primo giocatore del pianeta, ha qualcosa di soprannaturale.

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Il suo è un record destinato a restare impresso nella memoria e nella conoscenza degli sportivi tanto quanto quello di Bob Beamon che, ai Giochi di Città del Messico del ’68 fece segnare nel lungo la misura di 8.90: un salto che migliorava di mezzo metro il limite precedente e sarà anche per la rotondità dei numeri, è rimasto in più generazioni come il simbolo di un qualcosa di inarrivabile, che avrebbe sfidato il tempo.

E così è stato, visto che quel record fu battuto solo 23 anni dopo (il 23 a questo punto assume una connotazione cabalistica) e per soli cinque centimetri, da Mike Powell. Djokovic con il successo di oggi ha ormai travalicato i limiti del campo da tennis concedendosi, come il suo discorso post gara ha testimoniato, una dimensione messianica. 

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Fino a poche settimane fa il suo rendimento sul rosso era piuttosto scadente: tenendo fede a quello che è il suo credo da ormai qualche anno (strutturare la stagione attorno ai tornei dello Slam lasciando per il resto poche forze e magari anche meno concentrazione) a Parigi si è trasformato diventando un Golia anche meno capace di pietà per gli avversari di quello che è sempre stato in carriera.

L‘uomo simbolo dei no vax e testimonial de facto delle ambizioni territoriali serbe si erge pure a simbolo dei valori familiari (ampiamente citati nel discorso di chiusura), si trasforma in gran sacerdote delle potenzialità assolute della mente umana e nel totem della cura maniacale del fisico.

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Se i suoi successi siano dovuti più alla dieta maniacale a cui si sottopone, completamente plant based (prevede solo verdure, fagioli, frutta, noci, semi, ceci, lenticchie e oli salutari), alla placenta di cavallo con cui curerebbe i suoi malanni muscolari, al bottoncino sfoggiato sul petto proprio al Roland Garros, che, prodotto da un’azienda veneta, promette di nutrire il corpo con lunghezze d’onda di luce terapeutica, o a una determinazione sconfinata (durante la premiazione, invitando tutti i bambini del mondo a inseguire i loro sogni ha detto che già a 7 anni puntava a vincere Wimbledon), è difficile da stabilire.

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Ma sono tutti fattori che possono portare un uomo di 36 anni che gioca a tennis da quando era preadolescente a conquistare 23 titoli dello Slam. Limite che nessuno, a parte i suoi soci di miracoli Federer e Nadal, aveva osato avvicinare. Se Roger è ancora il capo indiscusso della chiesa laica che raduna milioni di fedeli in tutto il mondo e Rafa è l’eroe di una narrazione omerica che ha fatto di lui il protagonista di un eterno ritorno, Nole da oggi è l’immagine di un superuomo cui nulla è precluso.

Oltre a essere il tennista maschio più vincente che sia mai comparso sul pianeta terra. E la sua ascesa non è ancora finita. Non per niente, minaccioso, ha salutato il Roland Garros dicendo: “Ci rivedremo l’anno prossimo”. 

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