Cinquant’anni fa due pugni neri liberarono lo sport e gridarono uguaglianza

Cinquant’anni fa due pugni neri liberarono lo sport e gridarono uguaglianza

Non fu solo una foto. Quell’immagine fortissima del 16 ottobre 1968 riassume l’Olimpiade di Città del Messico nel pugno nero, chiuso, di Tommie Smith e John Carlos sul podio, a far conoscere al mondo la discriminazione razziale sempre presente nei democratici Unites States of America. Agonisticamente parlando, complici l’altura, l’avvento del tartan sulle piste d’atletica e lo spirito di quegli anni di rivoluzione, l’Olimpiade di Città del Messico fu molto di più dello sprint umano più veloce sui 200 metri (19.83 secondi, abbattendo a barriera dei 20”), fu anche lo storico salto di 8.90 di Bob Beamon nel lungo – fissando un limite che è durato per 23 anni -, fu Dick Fosbury, il gambero che rivoluzionò l’alto passando l’asticella di spalle, anziché di petto, fu l’esaltante tuffo nell’oro dai 10 metri dell’angelo biondo azzurro Klaus Dibiasi.

Era il 68, ragazzi, l’anno del volere volare, a cominciare dal sogno spezzato del profeta dei neri, Martin Luther King, il 4 aprile, e del profeta dell’uguaglianza, Bob Kennedy, il 5 giugno, i carri armati sovietici che schiacciarono Praga, la strage della piazza delle Tre culture, la sconvolgente povertà del Biafra che irruppe nella nostre ricche case del mondo occidentale insieme alla già soffocante pubblicità.

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Quel pugno chiuso, teso verso il cielo, avvolto in un guanto nero, dell’uomo-freccia e del terzo classificato in quella gara mitica, non fu solo protesta. Ma va oltre, molto oltre lo sport. Riassume verità assolute, belle e insieme brutte, come le due facce della nostra esistenza. Grida al mondo che, al di là dei motti decoubertiani e del qualunquismo, lo sport non può comunque rimanere fuori dalla vita di tutti i giorni, non può nascondersi in un’oasi felice e diventare un fatuo armistizio fra uomini che cercano di distruggersi tutti i giorni per motivi politici ed economici. Non può e non deve. Infatti, quel gesto platonico, mondiale, è diventato il simbolo della ribellione, della protesta, dell’anelito di libertà degli essere umani, quanto il piccolo rivoltoso cinese che si opporrà da solo ai carrarmati a piazza Tienanmen il 5 giugno 1989.

Potenza di una foto, talmente forte, talmente eloquente, talmente semplice, da bastare così, da sola, anche tagliata, anche senza mostrare le calze sempre nere, senza scarpe, dei due velocisti olimpici. A simboleggiare la povertà di chi non ha altro che la propria dignità e il proprio coraggio, la collanina di piccole pietre al collo, nel nome di ogni anonimo nero che è stato linciato solo perché si batteva per i suoi diritti. 

Sarebbe stato più facile boicottare i Giochi, come avevano fatto altri, sulla scia del programma olimpico per i diritti umani, fondato nel ’67 a Berkely dall’ex discobolo Harry Edwards. Sarebbe bastato sbandierare la coccarda di fieri poveri che trovano il loro momento di gloria sul podio olimpico ma sanno già di essere condannati a una vita comune non certamente da star, come infatti avverrà, perché, come tutti gli eroi della resistenza, pagheranno salatamente quel gesto di libertà: saranno cacciati dal villaggio olimpico, saranno additatati come pericolosi ribelli, esponenti di quel “Potere nero” che fa tanto paura ai bianchi, saranno minacciati insieme alle loro famiglie, verranno espulsi dall’esercito, vivranno lavando automobili, scaricando balle nei porti, rischiando una coltellata la notte come buttafuori dei locali. Finché non verranno riabilitati.

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Ma come contrapporre tutte le difficoltà del dopo con l’eccitazione, l’esaltazione, il brivido del prima e del durante? Volete mettere la solidarietà del ribelle bianco, l’australiano Peter Norman, che, con la sua brava coccarda al petto (“per solidarietà”), mentre i due ribelli, super-nervosi, erano nel panico più totale perché Carlos aveva dimenticato i suoi guanti, suggerì ai ribelli di calzarne un solo, Tommie a destra, John a sinistra. Dando un tocco magistrale alla foto più riuscita dello sport. Una foto che ha un risvolto strepitoso ed inatteso che solo la nostra vita di tutti i giorni sa raccontare.

Anche il ribelle bianco, Norman, ha pagato il suo gesto, come testimone delle ingiustizie sociali che nella sua Australia hanno le foto degli aborigeni. Aveva i tempi giusti, ma gli vietarono l’Olimpiade successiva, a Monaco di Baviera, come atleta, e quella di Vip, a Sydney 2000. Ma, al suo funerale, il 3 ottobre 2006, a reggere la bara c’erano i suoi amici neri, Smith e Carlos, e quella data è diventata la giornata mondiale dell’atletica. L’hanno deciso gli yankees che sanno tornare sui propri passi e sulla parola libertà vantano una letteratura intera. 

Ma quella foto va ancora oltre. Matt Norman, il nipote del ribelle, ne ha tratto un film, “Il saluto” (Salute), che è stato bocciato in patria, ma è diventato un manifesto nel mondo fino a sfociare da oggi nei nostri cinema. Riportando violentemente in primo piano un volto, e una storia, che erano passato in secondo piano nel famoso scatto del fotografo John Dominis della rivista Life, come succede ancora oggi nell’osservare con attenzione e da una diversa angolazione un quadro: quel volto bianco, sul podio dei pugni neri, è quello dell’uomo più punito nella storia dell’atletica, segregato, dimenticato, cancellato nella sua Australia ancor più degli amici neri. Per una coccarda di libertà e di uguaglianza.

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