20 anni senza Gino Bartali, il ‘giusto tra le nazioni’

Secondo alcuni Gino Bartali è stato il più grande ciclista italiano. Altri invece dicono che con la vittoria del ’48 al Tour de France abbia salvato il Paese sull’orlo di una guerra civile. Spesso, di un campione, si tende a restituire l’aspetto che si preferisce: l’eroe, il vincente, l’uomo forte e imbattibile. Di Gino Bartali si deve dire prima di tutto che è stato giusto.

‘Giusto tra le nazioni’, secondo quanto stabilito dallo Yad Vashem il 23 settembre del 2013 per aver rischiato la vita pur di salvare quella di oltre 800 ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Venti anni fa si spegneva a Firenze Ginettaccio e noi non avremmo saputo nulla riguardo a questa storia se non avesse confidato al figlio Andrea quanto fatto durante l’occupazione tedesca in Italia.

“Il bene si fa ma non si dice”, aveva spiegato al figlio chiedendogli di raccontare la sua storia soltanto a tempo debito. Nel tempo pero’ si fecero avanti diversi uomini salvati da Bartali e il suo lato eroico iniziò a emergere.

Il “momento giusto” arrivo’ nel 2012, quando Andrea scrisse: “Gino Bartali, mio papa‘”. Nella biografia spiegava quello che è stato sintetizzato al momento dell’iscrizione all’interno del memoriale ufficiale israeliano delle vittime dell’Olocausto fondato nel 1953, ovvero che “Bartali Gino, cattolico devoto, nel corso dell’occupazione tedesca in Italia ha fatto parte di una rete di salvataggio i cui leader sono stati il rabbino di Firenze Nathan Cassuto e l’arcivescovo della citta’ cardinale Elia Angelo Dalla Costa”.

Quando la notizia venne fuori dopo le prime testimonianze dei salvati, Bartali si arrabbiò molto. La nipote Gioia spiegò che si infuriò perché voleva essere ricordato come un campione sportivo e non per altro. Secondo la nipote l’aneddoto restituisce l’umiltà del campione.

Bartali faceva parte di una rete messa in piedi dall’arcivescovo Elia Angelo Dalla Costa che cercava qualcuno capace di correre veloce e di passare inosservato a tal punto da poter consegnare – anche su due ruote – documenti con nuove identità per salvare gli ebrei nascosti dai diversi preti della provincia toscana.

Un ciclista che si allenava non sarebbe mai stato controllato secondo l’arcivescovo, soprattutto se quel ciclista è uno dei più grandi campioni di sempre. Bartali accettò. Ginettaccio in realtà non aveva mai nascosto le sue antipatie verso il fascismo.

Basti pensare che dopo la vittoria del Tour del 1938 invece di ringraziare il duce – che lo voleva a suo fianco come simbolo di “italico valore“, nella fastidiosa retorica del tempo – preferì ringraziare la Madonna molto più vicina al suo credo rispetto al dittatore.

Fu anche arrestato e fermato più di una volta tra il settembre del 1943 e l’agosto del ’44. Nessuno pero’ si sognava di toccare la sua bicicletta che aveva nascosti nella canna e sotto il sellino timbri e documenti falsi per permettere ad alcuni ebrei di scappare in libertà. Resisté a 48 ore di interrogatorio e quando gli restituirono la bici, lui si rimise in sella e pedalo’ verso la prossima tappa.

Spiegò al figlio Andrea che quello era il suo modo di combattere la guerra: “Io salvo le persone, se sono ebree o musulmane o di altre religioni a me non importa niente. A me interessa la vita”. Macinava chilometri di corsa tra l’Umbria e la Toscana per mettere in comunicazione il rabbino Nathan Cassutto con l’arcivescovo toscano e gli ebrei nascosti.

Trasportava lettere, timbri, francobolli e documenti sotto il naso degli oppressori. Raccontò al figlio di essere stato colpito da un proiettile, sparato da un soldato che lo aveva fermato per un autografo e che lui aveva eluso partendo in volata.

Superò proiettili e controlli scappando così veloce che una volta finì “in una vasca di acque nere” e, come racconta il figlio, quando tornò a casa la moglie “lo fece spogliare fuori la porta, lo prese per un orecchio e lo infilò in vasca”.

Tutto questo perché, schivo e burbero com’era, si rifiutò di raccontare delle sue attività anche alla moglie. Sarebbe stato un rischio anche per lei sapere che il marito cospirava contro il regime. Dopo la morte del rabbino Cassuto si nascose a Città di Castello fino a che il CLN e gli alleati non liberarono l’Italia.

Bartali però non si limitò al trasporto di documenti falsi. Il campione nascose nella sua cantina una famiglia di ebrei. Questa storia venne raccontata direttamente da Giorgio Goldenberg, ebreo fiumano, che negli ultimi mesi dell’occupazione trovo’ rifugio grazie al campione di Ponte a Ema.

Così Goldenberg raccontò nel gennaio del 2011 a Pagine Ebraiche: “Dormivano in quattro in un letto matrimoniale: io, il babbo, la mamma e mia sorella Tea. Non so dove i miei genitori trovassero il cibo. Ricordo solo che il babbo non usciva mai da quella cantina mentre mia madre usciva con due secchi a prendere acqua da qualche pozzo”.

Con Bartali c’era anche il cugino Armandino Sizzi, anche lui particolarmente attivo in quel periodo, e dopo aver raccontato la storia Goldenberg concluse: “Gino e Armandino sono due eroi della Resistenza a cui devo la vita”. Ormai la carriera extra sportiva del grandissimo campione italiano è cosa nota.

Alle corse attraverso i colli del Lautaret, del Galibier della Croix-de-Fer del Coucheron e del Granier, alle Milano-Sanremo, alle tappe di tutti i Tour e Giri è doveroso affiancare il coraggio e il gran cuore di Ginettaccio che salvò la vita di oltre 800 ebrei con l’umile perseveranza del campione. Alla fine, come cantava Paolo Conte, siamo tutti ancora fermi ad “aspettare Bartali” convinti che da una “curva spunterà quel naso triste da italiano allegro”. 

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