I dati sulle attese al pronto soccorso e sull’uso dei codici d’urgenza

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Lunghe ore di attesa al Pronto Soccorso? Un’esperienza che abbiamo avuto senz’altro in molti. Talvolta forse anche giustificata ai nostri occhi dal fatto che ci sono davanti a noi casi effettivamente molto gravi e urgenti. In altri casi, senz’altro, la nostra percezione è di una fatica e difficoltà organizzativa della struttura che pare non essere adeguata o in grado di gestire gli afflussi in modo efficace.

Cambiare il volto del Pronto Soccorso in Italia è l’ambizione della riforma recepita di recente dalla Conferenza Stato-Regioni. Grazie ad alcuni accorgimenti, già in vigore e dunque dimostratisi efficaci in diverse realtà italiane, i reparti di medicina d’urgenza dei nostri ospedali potrebbero alleggerirsi del sovraccarico cronico di accessi. Tra le novità principali, la rivoluzione dei codici colori, trasformati in numeri dall’1 al 4 (oggi identificati dal rosso al bianco) con l’aggiunta di un quinto per le non urgenze e l’imposizione di un tetto massimo di attesa per ogni tipologia.

Con questo nuovo schema prima di essere convocati per la visita e iniziare il trattamento, si dovrebbe aspettare ad esempio per un codice giallo (urgenza ma non emergenza) non più di un quarto d’ora. Quando, invece, oggi con lo stesso codice si è costretti in alcuni casi a pazientare anche 7-8 ore in più. Lo dicono i numeri dell’Agenzia Nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) che ogni anno monitora lo stato di salute del sistema di assistenza e cure.

Gli ultimi dati disponibili, pubblicati sul sito dell’Agenzia, sono quelli relativi al 2017 e descrivono una situazione chiara: nei nostri Pronto soccorsi non si fa che aspettare, dopo la registrazione per la visita, e poi ancora per i risultati degli esami. Eppure, in molti, anzi troppi scelgono di recarvisi in ogni caso, anche quando non ce ne sarebbe il bisogno. I cosiddetti codici bianchi, assegnati ai pazienti che dovrebbero rivolgersi ai medici di altre sedi, rappresentano più di un decimo degli accessi annuali. E con questo peso in più, i reparti d’urgenza finiscono con l’entrare in affanno.

Quanto dura l’attesa al pronto soccorso

I dati del programma nazionale esiti, la piattaforma aggiornata anno dopo anno dall’Agenas e consultabile liberamente online previa registrazione, devono essere letti con estrema cautela. Ad esempio, i minuti di attesa per un codice giallo risultano molto diversi tra le varie strutture. Ma queste differenze potrebbero essere spiegate in alcuni casi con eventi extra ordinari e imprevedibili, che non c’entrano con il buon funzionamento degli ospedali.

Così i 543 minuti, oltre 8 ore, che hanno messo l’Istituto ortopedico Galeazzi spa di Milano davanti a tutti gli altri potrebbero essere stati causati, ad esempio, da un picco di influenze nella stagionale invernale. E lo stesso vale per Il Centro traumatologico ortopedico di Torino (514), il Presidio ospedaliero cervello di Palermo (433) o il Presidio ospedaliero nord di Latina (422). Così a scendere anche per gli altri ospedali d’Italia, le cui attese possono essere individuate con una semplice ricerca nella tabella di seguito.

Stando alle definizioni ufficiali dell’Agenzia, per “attesa” s’intende il tempo che passa tra la registrazione al triage e la prima visita da parte del medico o di un infermiere specializzato. I minuti indicati in precedenza rappresentano appunto il tempo entro il quale il 95% dei pazienti in codice giallo viene sottoposto a visita. Si tratta, insomma, di un limite massimo o un tetto, oltre il quale ha aspettato di più soltanto il restante 5% dei degenti.

Attenzione: questo dato non è da confondere con l’attesa media a cui normalmente si potrebbe andare incontro. Innanzi tutto, essendo dati del 2017, non riflettono gli andamenti del Pronto Soccorso in tempo reale. Poi, è vero che sono dati reali perché raccolti in tutti gli ospedali e non solo a campione. Ma la raccolta di questi dati non è fatta per stilare una graduatoria.

Al contrario, serve per capire dove ci sono delle criticità e per individuare quali possono essere le cause dietro a situazioni croniche di ritardo, che possono quindi essere migliorate, e quali invece derivino da situazioni eccezionali, come appunto il caso di un Pronto Soccorso preso d’assalto durante un picco di epidemia di influenza o altra emergenza sanitaria, non facilmente prevedibile e senz’altro più complessa da gestire per qualunque ospedale.

Per facilitare un’informazione in tempo reale ai cittadini, consentendo loro di recarsi in ospedale consapevoli sullo stato della coda in un certo momento, conviene scaricare delle app specifiche come Salutile della Regione Lombardia, quando disponibili, o collegarsi ai portali messi a disposizioni dalle Regioni come “Pronto soccorso Lazio”.

Le permanenze che vanno oltre le 24 ore

Le ore che si trascorrono dopo il triage non sono le uniche che il paziente è tenuto a sopportare. Succede spesso, infatti, che superato il primo scoglio, quando finalmente si viene convocati per iniziare il trattamento, cominci una nuova estenuante trafila. Questo perché se il numero degli accessi al Pronto soccorso è elevato, quasi certamente lo sarà pure quello degli esami diagnostici e delle analisi che si svolgono all’interno del reparto.

Il rischio concreto, quindi, è quello di dover aspettare ancora molto prima di capire se nelle proprie condizioni si possa tornare a casa o se, invece, si renda necessario il ricovero. L’arco temporale che abbraccia complessivamente l’esperienza al Pronto soccorso dalla registrazione alle dimissioni o al ricovero si chiama “permanenza” e per i motivi appena spiegati, ma anche per la particolarità delle condizioni del paziente, può spingersi fino a diversi giorni. Per fortuna, però, nella maggioranza dei casi (93%) termina prima di 12 ore e solo in limitate circostanze si attesta tra le 12 e le 24 ore (4,2%) o supera la giornata (2,8%).

Le nuove linee guida in materia, d’altronde, non vietano che si arrivi a lunghe permanenze, anche giornaliere. L’importante è che restino al di sotto delle 36 ore, un limite in realtà oggi non sempre rispettato. Prendendo di nuovo in considerazione i codici gialli, infatti, in alcune strutture il tempo di permanenza nel 2017 ha superato addirittura i quattro giorni. Si tratta del Presidio Ospedaliero Cervello di Palermo (6310 minuti) già citato, l’Ospedale degli infermi di Rivoli a Torino (6152), il Policlinico di Torvergata a Roma (6144), l’Ospedale Mauriziano Umberto I di Torino (6060). Il Policlinico di Torvergata è anche quello con la proporzione più elevata di permanenze superiori alle 24 ore (17,6%), seguito dal Presidio ospedaliero San Filippo Neri (17,5%) e dall’Azienda ospedaliera Sant’Andrea (16,9%), tutti ospedali della capitale.

Quanto pesano sul Pronto soccorso i codici bianchi

Se queste ore trascorse in sala d’attesa oppure in barella non hanno un solo responsabile, almeno una delle cause è piuttosto evidente: l’eccesso dei codici bianchi. Ossia quei pazienti che pur non avendo la necessità di recarsi in Pronto soccorso perché non presentano delle urgenze, lo fanno in ogni caso perché non possono o non vogliono rivolgersi al proprio medico di base, non si sentono sufficientemente sicuri del consiglio di una guardia medica oppure perché pensano in questo modo di saltare le lunghe liste d’attesa per le visite specialistiche.

Con il risultato che oggi una persona su dieci che arriva al Pronto soccorso non è nel posto più adatto alle sue cure. Precisamente, i codici bianchi nel 2017 sono stati il 12,97% del totale, una percentuale che si conferma simile a quella degli anni precedenti. La situazione in generale per tutte le tipologie sembra da anni quasi cristallizzata. I codici rossi, cioè i degenti in pericolo di vita per fortuna costituiscono la minoranza con appena l’1,72% dei casi su oltre 20 milioni di accessi. La maggioranza è rappresentata dai codici verdi (62,92%), i pazienti dalle cure differibili perché non mostrano lesioni vitali. E nel mezzo ci sono i codici gialli, che per la parziale compromissione delle funzioni principali sono delle urgenze (21,6%).

I codici bianchi non pesano, però, allo stesso modo su tutto il territorio nazionale. Pur essendo un fenomeno trasversale da nord a sud, in alcune regioni è un fatto evidente e netto, in altre quasi trascurabile. Una facile elaborazione sui dati di Agenas ci suggerisce che in Liguria (52,3%), Valle D’Aosta (44,8%) e Veneto (39,3%) un paziente su tre viene classificato al Pronto soccorso con un codice bianco. Cosa che non succede nella Provincia Autonoma di Bolzano (3,2%), in Puglia 4,1%) e in Lazio (4,2%) dove le percentuali sono di gran lunga inferiori.

Questo uso spasmodico del Pronto soccorso, è evidente, tradisce delle lacune nell’assistenza primaria territoriale. L’Agenas svolge, infatti, quest’attività di monitoraggio proprio per capire in quali realtà siano localizzate le criticità più acute per poter procedere al miglioramento. Che si realizza, sia con un intervento diretto sul funzionamento della medicina d’urgenza, come quello appena effettuato con questa riforma, sia col potenziamento del sistema di assistenza primaria sul territorio, per garantire cure adeguate anche in altre sedi.

La riforma dovrebbe dunque dare maggiori certezze in termini di aspettativa dell’attesa prima della visita e poi della permanenza nella struttura. E le nuove pratiche dovrebbero consentire anche alle strutture stesse di distinguere tra le situazioni croniche, dove i ritardi sono probabilmente associabili più a una difficoltà organizzativa o alla scarsità di risorse, e quelle che invece vedono picchi di attesa determinati da situazioni eccezionali.

Va ricordato in ogni caso che i dati e il monitoraggio vanno sempre giudicati sulla base di molteplici fattori anche di contesto, tra i quali ad esempio la popolazione di riferimento, l’accessibilità di un ospedale per la popolazione stessa con mezzi pubblici o meno, l’insieme delle prestazioni che quell’ospedale offre rispetto a un altro e via dicendo.

Migliorare la gestione del Pronto Soccorso di molti dei nostri ospedali è senz’altro utile per riuscire a rispondere in modo efficace a quelle che sono le reali emergenze e per distinguerle da trattamenti che possono essere eseguiti al di fuori della struttura del Pronto Soccorso. Il nodo però rimane secondo alcuni comunque quello delle risorse, come ricorda sul suo sito la Società Italiana di Medicina d’Urgenza, che sottolinea che mancano oggi oltre 2000 medici e 10 mila infermieri e che “se non si procederà a una trasformazione organizzativa complessa dell’emergenza, la riforma rischia di rimanere lettera morta”.

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