La mafia uccide a maggio: Cosimo Cristina, ‘suicidato’ come Impastato

Il capitano Basile, il procuratore Scaglione, Peppino Impastato: la mafia uccide a maggio, si potrebbe affermare parafrasando Pif . ‘Suicidato’ sui binari della ferrovia, come il fondatore di Radio Aut,, il cui anniversario della morte ricorre tra quattro giorni, Cosimo Cristina trovò destino simile in questo mese dell’anno. E la scenografia imbastita per il suo omicidio – fu il primo giornalista vittima della mafia – somiglia in modo incredibile a quella del cronista di Cinisi, odiato dal boss Gaetano Badalamenti.

Il cadavere di Cosimo Cristina fu trovato il 5 maggio del 1960 in una galleria della linea ferroviaria Palermo-Messina, fra Trabia e Termini Imerese. Cristina, 25 anni, era il corrispondente del giornale L’Ora di Palermo e dell’Ansa, collaboratore del Corriere della Sera, del Giorno e del Gazzettino di Venezia. Giornalista pubblicista dal 1958, per il leggendario quotidiano palermitano aveva scritto inchieste sugli intrecci tra mafia e politica nella zona delle Madonie.

Nel 1959 aveva fondato il settimanale “Prospettive siciliane” puntando oltre che sull’attualità anche sulla cronaca nera e giudiziaria: dalla mafia di Termini e di Caccamo, alle indagini sull’omicidio del sindacalista Salvatore Carnevale e sulla morte di un prete. “Il giovane cronista di Termini Imerese – ha scritto Vincenzo Bonadonna nel volume curato dall’Unci Sicilia dedicato ai giornalisti uccisi da mafie e terrorismo e dato alle stampe in questi giorni – era entusiasta della vita, che gli si apriva davanti. Era nato l’11 agosto 1935. Chi lo ha conosciuto lo descrive come un tipo allegro, gioioso, che non si abbatteva, nonostante le difficoltà”.     

Era un ragazzo elegante, Cosimo. Uscì di casa alle 11 del mattino ben vestito, con il solito cravattino, rasato di fresco e profumato. La sera, non vedendolo rincasare, i genitori e le tre sorelle si impensierirono. Cosimo – come ha ricostruito di recente la sua storia il sito giornalistiuccisi.it, inaugurato il 3 maggio scorso – non tornò in famiglia neanche dopo due giorni. Vane le ricerche dei parenti, degli amici, dei carabinieri.

Furono due giorni di cupa, profonda, assoluta disperazione. Il cadavere del giovane cronista fu trovato alle 15,35 del 5 maggio lungo la strada ferrata della linea Palermo-Messina, tra le stazioni di Termini Imerese e Trabia. Il padre, impiegato delle Ferrovie, apprese dalla radio la notizia della presenza di un corpo senza vita sui binari del treno e accorse sul luogo del ritrovamento. Non ebbe un funerale, la sua morte venne archiviata come ‘suicidio’. 

Nel 1966 – riporta ancora giornalistiuccisi.it – a sei anni di distanza dalla morte, il vice questore di Palermo Angelo Mangano, indagando sulla mafia delle Madonie, raccolse le confessioni e nuovi elementi investigativi in un voluminoso dossier, e fece riaprire l’inchiesta sulla morte del giornalista. La nuova tesi investigativa parlava di omicidio.

Il 12 luglio di quell’anno la magistratura ordinò la riesumazione del corpo e l’autopsia sul cadavere di Cristina. L’esito dell’autopsia eseguita presso il cimitero di Termini Imerese dai professori Ideale del Carpio e Marco Stassi confermò la tesi del suicidio ribaltando le risultanze investigative di Mangano. Il 3 ottobre 1966 la storia di Cosimo Cristina fu archiviata definitivamente come suicidio.

Un altro giornalista, 33 anni dopo, darà nuova luce al caso: il catanese Luciano Mirone, nel suo libro “Gli insabbiati”. “Quando, a metà degli anni Ottanta – scrive sul sito linformazione.eu – ebbi l’idea di scrivere il libro sulla storia dei giornalisti siciliani uccisi dalla mafia, mi imbattei in questo caso incredibile. Andai a Termini e – malgrado gli anni trascorsi – trovai una città spaventata. C’era da capirlo: dopo un quarto di secolo comandava ancora la famiglia Gaeta, un nome che Mangano nel ’66 aveva indicato fra i mandanti del delitto. Mi recai a casa di una delle sorelle di Cosimo, ma invano.

La paura era palpabile, al punto che ebbi l’impressione che la versione del suicidio fosse un formidabile alibi sociale per evitare problemi con i mafiosi“. “Restava una sola carta da giocare. Far studiare il referto autoptico – prosegue Mirone – a un esperto di medicina legale per dimostrare certe contraddizioni che si coglievano dalle lettura di quelle pagine. Mi recai dal professor Vincenzo Milana dell’Università di Catania, un grande professionista che collaborava da una vita con la Procura etnea. Milana lesse le carte e le smontò pezzo per pezzo.

Nel libro mi limitai a proporre le due tesi, senza ovviamente fare alcun commento personale. Fu il vero terremoto che rase al suolo decenni di menzogne. Quando il volume uscì, chiesi ai magistrati di Palermo la riapertura del caso. Troppo tardi”. 

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