La ragazza d’oro del tennis deve decidere per quale bandiera giocare

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Appena Naomi Osaka è diventata la prima regina giapponese dello Slam, il 9 settembre a New York, il dio dollaro ha cominciato a soffiare il suo piffero magico per strapparla al Paese del sol levante. E ora che la ragazza d’oro si avvicina al ventiduesimo compleanno, il 16 ottobre, aumenta il pressing, per farle abbracciare soltanto il passaporto yankee.

L’aiutino decisivo può arrivare dalla legge giapponese che, al compimento dei 22 anni, impone a chi ha doppio passaporto di fare la scelta decisiva. Senza se e senza ma, senza rinvii e deroghe. Ancor di più, nel caso di un personaggio così noto, come la numero 1 del tennis pro e campionessa di due Slam (dopo gli Us Open, anche gli Australian Open), peraltro già protagonista di una doppia disputa dalle radici della sua esistenza.

Naomi è nata infatti ad Osaka, in Giappone, da mamma giapponese (Tamaki) e papà haitiano (Leonard Francois). Dai tre anni è cresciuta in America, a Long Island (New York), sia pure con una educazione haitiana, da nonna e nonno paterni. A 8 anni, s’è trasferita in Florida perché papà voleva emulare Richard Williams e portare anche l’altra figlia, Mari, al vertice del tennis. Proprio papà, irritato dalla scarsa attenzione della Usta, la Federtennis Usa, ha poi fatto abbracciare a Naomi la bandiera giapponese, pur garantendole il passaporto Usa.

Perché la ragazza, come gioco, come parlata e come stile di vita è più propriamente figlia della cultura yankee. Lei stessa ha candidamente confessato di non sentirsi libera di parlare un giapponese perfetto davanti ai media e di dover spesso spiegare alla sua gente come mai una giapponese abbia la pelle ambrata (del papà haitiano). Situazione ignota negli Stati Uniti, che abbraccia tutte le razze e le religioni.

Sulla via dell’Olimpiade estiva di Tokyo 2020, il mercato giapponese ha arricchito la Osaka con le sponsorizzazioni Yonex (racchetta), Sisheido (cosmetici), Nippon Airways (linea aerea) e Wowow (emittente satellitare). Ma non è riuscita a vestirla Uniqlo (come Federer e Nishikori), perché la ragazza d’oro ha rifiutato gli 8.5 milioni di dollari l’anno che le proponeva Adidas per allungare il contratto, ed ha per sposato l’americanissima Nike per una cifra imprecisata, ma che dev’essere di almeno 10 milioni l’anno. Pluriennale e garantita.

È questo un ulteriore segnale della conversione di Naomi alla bandiera dello zio Sam? Lei, ancora a ottobre al torneo di Pechino, dribblava la domanda rimandando la questione al governo del suo Paese: “Io sono sicura, visto che gioco per il Giappone. Non voglio mancare di rispetto a qualcuno, o altro, ma non capisco perché si possa pensare, ma non capisco da dove salti fuori la conclusione che per me sia difficile scegliere”.  

Gli esperti legali sostengono che il governo giapponese raramente imponga il rispetto della legge di scegliere tra due nazionalità, soprattutto a fronte di ben 890 mila persone con doppio passaporto. E, finora, il governo di Tokyo non ha mai revocato una cittadinanza giapponese a chi, come la Osaka, ce l’ha per nascita. Mentre chi sceglie la naturalizzazione in un altro paese la perde automaticamente.

Ma la notorietà di Naomi potrebbe creare qualche problema politico, facendola diventare un simbolo, e quindi un dibattito sulla credibilità delle leggi giapponesi. Soprattutto in considerazione del fatto che le sue particolari radici multiculturali già hanno sfidato le nozioni sull’identità nazionale, facendola diventare la più prominente figura multirazziale e multinazionale del paese. Dove, ogni anno, soltanto un bambino su cinquanta ha genitori stranieri. E così il piffero del dio dollaro suona sempre più acuto.

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