L’Nba si ferma contro il razzismo. Playoff a rischio dopo lo sciopero

AGI – Il 26 agosto è già una data storica per il mondo sportivo professionistico americano. La Nba si è fermata di nuovo e stavolta il coronavirus non c’entra. Tre partite di playoff – Milwaukee-Orlando, Houston-Oklahoma City e Portland-Los Angeles Lakers – sono state posticipate a data da destinarsi per volere dei giocatori. E tra le opzioni sul tavolo della Lega c’è ora la sospensione definitiva della stagione.

La protesta strisciante

La bolla di Orlando, dove le squadre si sono rifugiate per disputare ciò che resta di un anno travagliato, è rimasta immune ai contagi ma non alle violenze della polizia nei confronti degli afroamericani. Molti giocatori, agli albori della ripartenza a fine luglio, avevano mostrato reticenza nel recarsi a DisneyWorld e scendere in campo dopo la morte di George Floyd, chiedendo almeno di poter far sentire la loro voce.

Per questo sui parquet della Florida erano comparse le scritte “Black lives matter”, si sono inginocchiati durante l’inno nazionale e sulle canotte, al posto dei classici nomi, prese di posizione e appelli sociali come “equality”, “stand up”, “freedom”, “love us”, “justice”, “how many more”. Oltre il 70% dei cestisti Nba è afroamericano e molti di loro hanno scelto di scrivere “enough”. Ne avevano avuto abbastanza. Per questo, quando domenica scorsa è stato diffuso il video in cui Jacob Blake, giovane afroamericano del Wisconsin, viene ferito a colpi d’arma da fuoco alla schiena dalla polizia, hanno deciso di dare seguito alle parole, alle scritte, ai messaggi. 

La mossa di Bucks

La protesta è stata innescata dai Milwaukee Bucks. La squadra del Wisconsin, certo, ma anche quella con il record migliore, candidata a vincere il titolo e rappresentata da uno dei volti più importanti di questa Nba, l’Mvp in carica, Giannīs Antetokounmpo. Alle 22, ora italiana, le 16 negli Usa, i giocatori dei Bucks si sono chiusi nello spogliatoio. Sul parquet, a fare riscaldamento, sono rimasti i loro sfidanti, gli Orlando Magic, e gli arbitri. “Noi non giochiamo”, hanno fatto sapere, scavalcando dirigenza, vertici della Lega e mettendo tutti davanti a una scelta, forte, che segna inequivocabilmente il futuro della stagione.

The Athletic racconta come la squadra si sia messa in comunicazione con il procuratore generale del Wisconsin, Josh Kaul, e il governatore dello Stato, Mandela Barnes. Poi alcuni giocatori hanno letto un comunicato che spiegava la loro decisione: “Abbiamo visto l’orrendo video in cui, nel Wisconsis, nostro stato d’origine, Jacob Blake veniva colpito alla schiena sette volte da un agente di polizia a Kenosha e poi l’ulteriore sparatoria contro i manifestanti. Nonostante l’enorme richiesta di cambiamento, non c’è stata alcuna azione, quindi la nostra attenzione oggi non può essere sul basket. Quando andiamo in campo e rappresentiamo Milwaukee e Wisconsin, ci si aspetta che giochiamo ad alto livello e diamo il massimo impegno sentendoci responsabili a vicenda delle nostre azioni. Ci atteniamo a questo standard e in questo momento chiediamo lo stesso ai nostri legislatori e alle forze dell’ordine. Chiediamo giustizia per Jacob Blake e chiediamo che gli ufficiali colpevoli” di quel gesto “siano ritenuti responsabili”.

 Affinché ciò avvenga, per i Milwaukee Bucks, “è imperativo che la Legislatura dello Stato del Wisconsin si riunisca nuovamente dopo mesi di inattività e adotti misure significative per affrontare le questioni relative alle responsabilità della polizia, alla brutalità perpetrata e alla riforma della giustizia penale. Incoraggiamo tutti i cittadini a istruirsi, intraprendere azioni pacifiche e responsabili e ricordarsi di votare a novembre”. 

I giocatori dei Magic hanno aderito alla protesta e hanno fatto sapere che non avrebbero accettato la vittoria a tavolino prevista dal regolamento in caso una delle compagini non si presentasse alla palla a due (allo stesso modo la Lega dovrebbe imporre una multa da 2,5 milioni di dollari ma è difficile che ciò accada). Così si sono diretti verso gli spogliatoi, seguiti dagli arbitri e dagli addetti ai lavori. Gli schermi si sono spenti. L’arena, già vuota per l’assenza dei tifosi, si è svuotata da ogni velleità cestistica.

A rischio la fine della stagione?

Un’arena diventata rumorosa, non al suo interno, ma per quello che ha saputo innescare nelle ore successive. Il tam-tam tra i giocatori dura poco. Rockets, Thunders, Blazers e Lakers, protagonisti delle due gare successive in calendario, si schierano con i colleghi. Celtics e Raptors, la cui gara è prevista per stanotte, avevano già ipotizzato il boicottaggio. Nessuna gara verrà più disputata. Anche la Wnba, la lega femminile, fa lo stesso. La Mlb, quella di baseball, si è detta pronta a posare guantoni e mazze sul diamante. I Detroit Lions, della Nfl, hanno interrotto il loro allenamento per protestare contro l’ennesima sparatoria. Cinque partite della Mls, il calcio americano, sono state posticipate.

Tutti guardano verso la costa orientale degli Stati Uniti dove il giorno è diventato molto più lungo del normale: i giocatori Nba si incontreranno nuovamente alle 17 italiane per discutere il da farsi, ovvero se riprendere le ostilità o continuare con lo sciopero per concentrarsi su una partita molto più difficile, che si gioca in altri lidi e con altre vesti. Alla stessa ora si incontreranno, virtualmente, i proprietari delle franchigie e il commissioner Adam Silver. Quest’ultimo, in teoria, sarebbe il meeting più importante ma quella americana è una Lega molto diversa rispetto a quelle europee. La Nba è una lega di giocatori e sono i giocatori che avranno l’ultima parola in merito. Ma, come ricorda The Undefeated, orbita Espn, “i giocatori non possono combattere questa battaglia da soli. Se i giocatori vogliono trasformare la loro rabbia e la loro frustrazione in azioni concrete, avranno bisogno dei muscoli e delle voci dei multimiliardari che possiedono le squadre e che gestiscono il campionato insieme a loro”.

Quello che filtra dai media statunitensi e che ci sarebbero due strade possibili: una, caldeggiata da LeBron James e Kawhi Leonard, che vorrebbe lo stop definitivo; l’altra, più morbida, punterebbe al ritorno in campo per terminare quello che è stato avviato in estate con grande difficoltà. Lo sport in America si sta fermando per una battaglia più grande, in piena campagna per le elezioni presidenziali e durante la peggiore pandemia degli ultimi decenni. Per chiedere un cambiamento più importante di un canestro segnato.

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