Così fu ucciso in Ucraina Andy Rocchelli, fotoreporter di guerra

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Andy Rocchelli

“L’attacco mortale fu rivolto ai giornalisti nell’esercizio del diritto di documentare il conflitto in atto. Erano giornalisti ben riconoscibili come tali”.  I giudici di Pavia che hanno condannato uno dei suoi assassini lo chiamano proprio così, “diritto”: quell’impasto di coraggio e amore per la verità che portò Andy Rocchelli, nato  nel 1983 e padre di un bambino che ora ha 8 anni, a morire la sera del 24 maggio 2014 alla periferia di Sloviansk in Ucraina, dove si trovava per documentare le sofferenze della popolazione civile nel conflitto tra esercito ucraino e separatisti filorussi.

Era giovane,  bravo, anzi bravissimo, tanto da vendere le sue immagini su giornali come ‘Le Monde’ e ‘Newsweek’ ed è stato finito a colpi di mortaio mentre, già ferito, continuava a scattare delle foto poi pubblicate dall’’Espresso’. Le 169 pagine firmate dalla Corte d’Assise di Pavia per motivare la condanna a 24 anni di carcere dell’italo ucraino Vitaly Markiv rappresentano, al tempo stesso, la tragedia ma anche l’esaltazione dei giornalisti free lance di guerra, come Andy: spesso ragazzi, quasi sempre senza tesserini, né tutele di categoria.

Testimoni sul campo e nel processo sono stati i suoi colleghi: William Roguelon, Ilaria Morani, Marcello Fauci, Francesa Volpi, Andrea Carruba. Il loro contributo è stato fondamentale per ricostruire quello che accadde, ora riversato in una sentenza che sembra una cronaca di guerra. “Fu (in un colloquio con i giornalisti Fauci e Morani, ndr) lo stesso Markiv a collocare se stesso, quel giorno, sulla collina Karachun, pienamente al corrente dell’attacco appena sferrato ai reporter”.

“Non c’era nessuno scontro in atto: i giornalisti non incontrarono nessun posto di blocco filo-russo, nessun soldato filorusso, per cui scesero dal taxi per il loro servizio in una situazione di tranquillità. Solo quando, percorsa la strada, si avvicinarono al treno per scattare le fotografie un giovane ragazzo in abiti civili uscì da una piccola costruzione al lato della ferrovia e li avvertì del pericolo con la parola ‘sniper’. Mironov, il soggetto più esperto del gruppo, consigliò di allontanarsi lentamente, in fila indiana, tornando verso il taxi. Appena raggiunsero l’altezza della fabbrica Zeus ebbe inizio l’attacco, sferrato in più fasi e con differenti armi, che non ebbe alcun momento di desistenza sino al definitivo allontanamento del superstite Roguelon. La prima parte dell’offensiva fu portata a colpi di kalashnikov, scariche di colpi, una serie continua di raffiche che sfrecciavano sopra le loro teste e impattavano contro il muro della fabbrica Zeus. Mentre tutti i soggetti si trovavano nel fossato del boschetto proseguirono gli spari e, quindi, dopo cinque minuti, iniziò la seconda parte dell’offensiva, portata con i colpi di mortaio. (…) Dapprima venne preso di mira il taxi, Iniziò quindi la sequenza mirata a tiro progressivo di avvicinamento, dei colpi di mortaio (…) L’attacco proseguì colpendo dapprima Roguelon alle gambe. Fu nella prosecuzione di questo bombardamento che morirono Mironov e Rocchelli, che Roguelon ha ricordato a poca distanza da sé”.

È pacifica “la ricostruzione del tiro al bersaglio cui erano state sottoposte le persone che avevano cercato scampo nel fossato. In totale furono scaricati 20, 30 colpi di mortaio sui soggetti rifugiati nel boschetto”.  “All’agguato contro i giornalisti partecipò in modo attivo Markiv”. Era armato “del proprio Ak74, arma provvista di mirino ottico utile a consentire la migliore visione per attingere bersagli a maggiore distanza e con più precisione. Da quella postazione poteva e doveva fornire le indicazioni necessarie per indirizzare il tiro dei mortai (in uso all’esercito ucraino, ndr) che, come ogni giorno, erano pronti a intervenire”.

Le modalità furono proprio quelle descritte a Ilaria Morani da Markiv, in quella confessione stragiudiziale, elemento rilevante del compendio probatorio, che l’imputato non ha saputo/potuto smentire a dibattimento e che, invece, ha trovato piena corrispondenza nelle ulteriori decisive prove acquisite”.

Markiv, nella sua funzione di capo postazione, pur in assenza di qualsivoglia attacco di fuoco della parte nemica, insospettito dai movimenti dei giornalisti avvicinatisi in prossimità del treno, si mosse “sparando a tutto quello che si muoveva nel raggio di due chilometri’”.

“Markiv partecipò alla prima sparatoria con i fucili Ak74 contro i giornalisti nelle vicinanze del muro della fabbrica Zeus (…) Non riuscendo ad attingere i giornalisti con i kalashnikov, proseguì la propria azione seguendone i movimenti grazie al mirino ottico in dotazione, comunicando attraverso il proprio comandante con l’esercito al fine di colpire il taxi per impedire la fuga e immobilizzare ed eliminare i soggetti nel bosco ove si erano rifugiati (…) consentendo di calibrare quei colpi che Roguelon ha descritto come precisi, in progressivo avvicinamento e aggiustamento, che in sequenza lo attinsero alle gambe, poi caddero accanto a Rocchelli e Mironov, con un colpo più vicino, dalle conseguenze letali”.

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