Dalla chiesa ucraina di Roma cento camion di aiuti

AGI – “Una scheggia di bomba, viene da Kharkiev. Gliela regalo”. Il pezzo di ferro è concavo, ha spigoli taglienti e una croce nera incisa al centro: nelle mani grandi di Don Marco pare perdersi, arriva nelle nostre portando il peso di un dolore sconosciuto.

Fermi e brillanti su una barba nera e un corpo imponente, gli occhi azzurri di Don Marco Yaroslav Semehen, presidente dell’associazione religiosa Santa Sofia per i cattolici ucraini a Roma e Rettore della Basilica di Santa Sofia, si sono bagnati più di una volta, nel corso della conversazione con l’AGI nel giorno dell’anniversario dell’invasione del suo Paese.

Di politica non serve parlare, lui ha in mano i corpi e le anime di chi le scelte della politica le subisce: nella periferia di Roma, Boccea, sotto le cupole orientali della splendida chiesa di rito cattolico bizantino dal 24 febbraio del 2022 don Marco e i suoi 250 parrocchiani accolgono, consolano, pregano, e raccolgono aiuti per i connazionali in guerra.

 “È partito sabato – racconta don Marco ad AGI – il centesimo camion: 20 tonnellate di materiale raccolto grazie alla generosità di tutti. Gente di ogni confessione, da ogni parte d’Italia, ha partecipato spontaneamente alla raccolta per gli Ucraini”.

Nei saloni della parrocchia, tra i busti dei Pontefici, le immagini incorniciate di quei primi giorni di conflitto: scatoloni di cartone a coprire gli ori bizantini dei mosaici, bambini a spingere carrelli pieni di cibo; e poi la visita del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla comunità ucraina, e i tanti, tantissimi, aiuti umanitari raccolti e smistati.

“La nostra missione – ricorda Don Marco con AGI – è nata come risposta alla brutta invasione della Federazione Russa sul territorio ucraino, inaspettata fino all’ultimo momento. Io stesso ero stato a casa nei primi giorni di febbraio e ancora speravo che si trovassero i patti diplomatici per evitare una guerra. Però è successo, e abbiamo dovuto affrontarla. La prima cosa sono gli aiuti umanitari, alimentari e farmaceutici, e il sostegno agli sfollati”.

Duecentocinquanta i parrocchiani, quindicimila i connazionali passati da questo altare dall’inizio della guerra. La prima accoglienza è passata proprio dalle reti familiari: sono ottantamila circa gli ucraini in Italia, ed è da loro che si è rifugiato chi ha potuto, scappando dalla guerra. Poi, certo, sono arrivati gli aiuti istituzionali.

 “Nei primi giorni – ricostruisce il parroco ucraino – andavano aiutati gli sfollati interni: la migrazione forzata è iniziata il secondo o il terzo giorno della guerra. Dal canto nostro abbiamo subito aperto le porte della basilica, e risposto a chi, come il direttore della Fondazione Migrantes della Cei Monsignor Pierpaolo Felicolo e la dottoressa Ercoli di Medicina Solidale, si è messo a disposizione per accogliere le richieste che iniziavamo a ricevere. Sabato 26 febbraio 2022 era già partito il primo pulmino con cibo, prodotti per i bambini e quello che siamo riusciti a raccogliere.

La domenica, dopo la messa, c’era già fuori dalla basilica una lunghissima coda di macchine, che venivano a portare aiuti”.

Donazioni spontanee, giunte in massa senza richiesta. Pasta, riso, latte, prodotti per bambini, medicinali. “Non eravamo nemmeno pronti – ricorda il religioso – non aspettavamo una risposta così immediata senza appelli ufficiali. Non abbiamo potuto fare altro che aprire gli spazi, e accogliere. Da lì è partita la Missione Santa Sofia, e sono arrivati non solo i beni ma anche i volontari, di ogni generazione, di ogni confessione, di ogni provenienza” Quale il ricordo più commovente? “Una cosa – risponde Don Marco – che mi ha commosso tantissimo: il terzo giorno di guerra un signore completamente invalido è venuto in carrozzina con dei pacchi di pasta e di latte, dicendo che voleva portare il suo contributo. E poi naturalmente abbiamo ricevuto donazioni da grandi aziende che hanno mandato grandi forniture: sono molto grato. Nei primi giorni abbiamo dovuto fronteggiare anche il blocco delle comunicazioni, il blocco delle banche e dei trasporti, ma abbiamo continuato a raccogliere”. Universale la risposta, e universale la paura: la speranza che fosse una guerra lampo ha fatto presto a svanire.

“Pensavamo che sarebbe stata breve, ma io avevo paura che non fosse così: avevo il timore che andasse come altri conflitti che abbiamo già visto. È quello che dice il Santo Padre Francesco: la terza guerra mondiale in pezzi. Anche adesso, che l’attenzione è alta per via del drammatico anniversario, rischiamo di dimenticare i singoli drammi”.

Il racconto prosegue con ordine, Don Marco Yaroslav Semehen ricostruisce la risposta che la sua comunità ha potuto dare da lontano, ma si interrompe, cerca le parole, quando deve raccontare ciò che dal fronte gli veniva riportato.

“Il momento più drammatico – racconta – per me è stata l’apertura delle fosse comuni di Irpin e di Bucha: perché anche le guerre hanno le loro regole, e io non mi aspettavo attacchi sui palazzi civili, sugli ospedali, sugli asili nido. In una guerra sai che avrai notizie dal campo di battaglia, però qui la crudeltà…”.

 Si ferma, raccoglie un ricordo. “Le immagini – racconta lentamente – delle fosse comuni, la gente sparata con le mani legate, i bambini di pochi mesi stuprati nei modi più crudeli dai primi militari che sono arrivati. Ragazzi cui durante le violenze sono stati rotti i denti. Le donne violentate. Un fedele mi ha parlato del dramma di una sua parente che abitava vicino a Kiyv, ottantenne: tutti i giorni i militari russi venivano a violentarla, anche dieci volte. Ogni giorno, a ottant’anni. E così i bambini: ho purtroppo visto le immagini relative a bambini molto piccoli, che hanno subito delle crudeltà atroci, insensate”.

Don Marco si interrompe, la voce gli trema. “Dolore, dolore, dolore”, riesce a dire. Quale conforto, quale parola, per una comunità che lontano dal proprio territorio sente queste notizie? “Noi – risponde – cerchiamo di non avere odio. Ripeto sempre ai miei fedeli: non odiamo, perché l’odio divora te stesso, e se ti mangia le forze cosa farai dopo? Però abbiamo il diritto di piangere. Piangiamo spesso. Cristo ha pianto davanti alla tomba di Lazzaro: il dolore c’è. E c’è il senso forte di essere stati colpiti da un’ingiustizia, dal dolore. E poi morti, morti, morti. Io sono sicuro che non abbiamo ancora le statistiche vere. Sono morti molti di più di quanti ne dicono”. La morte che divora il futuro, mettendo l’uno contro l’altro due popoli fratelli.

“Quello che vediamo nelle nostre comunità: i funerali dei ragazzi militari, dei padri che lasciano chi due, chi tre figli. I giovani che avrebbero voluto diventare padri, creare famiglie, dare la vita, e invece sono stati mandati a morire, per nessuna ragione. È un dolore molto forte”. E non è ancora finito, ci scappa di bocca.

Don Marco riflette, ora parla la sua fede: “Siamo in Quaresima. Nella Chiesa Bizantina nella prima settimana si legge la Genesi, i passi sulla creazione del mondo: a me fa pensare che Dio lo ha creato buono, il mondo. Il peccato che ha corrotto la relazione tra l’uomo e Dio corrompe la relazione tra gli uomini. La corruzione acceca la persona umana, in un modo così profondo che le persone fanno la guerra, uccidono. Per nessuna idea. Noi predichiamo l’insensatezza dell’odio, e la logica del Vangelo. Esiste il giudizio ingiusto, esiste la via crucis ed esiste il Golgota: esiste l’ingiustizia ed esiste la morte. Ma esiste la Resurrezione. Su questo mi sono basato io stesso, perché non è facile essere prete e vivere la guerra; affidare alla preghiera il dolore proprio e quello di tanti, e accostarsi all’altare. Cerchiamo di pregare, aiutare, capire: ma i sentimenti sono forti”.

“Io guardo – conclude – l’ottica della fine della guerra. Però dal Paese sono usciti già ufficialmente dodici milioni di persone. Il Paese è svuotato. Noi continuiamo a pregare e ad aiutare: come dice il Papa vogliamo essere la luce della speranza, preghiamo per i potenti, perché le loro menti vengano illuminate. Il mondo tornerà a vivere in pace”.

Davvero? “Dobbiamo pregare. Dobbiamo pregare”. Nella comunità ucraina di Roma la vita accoglie la vita, e a Don Marco un pensiero di gioia illumina lo sguardo. “Ci sono stati – racconta – anche dei bei momenti: è capitato alcune volte che nel corso delle prime visite donne scoprissero di essere incinte. Sono nati già parecchi rifugiati. I papà sono tutti al fronte. Alcuni non hanno ancora conosciuto i loro figli. Altri non li conosceranno mai”. Lasciamo la Basilica. A salutarci, la statua di San Volodymir il Grande, battezzatore della Rus-Ucraina. 

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